... musica...meditazione ...

>> domenica 1 marzo 2009

La musica. Della musica conservo un ricordo particolare. La musica è spesso relativa alla nostra vita, e come la nostra vita, si evolve, ogni tanto s’involve, segue le correnti, va spedita verso il futuro pur avendo un passato che non può dimenticare, qualcosa di obsoleto a cui non può assolutamente rinunciare. Cambiano le tecniche, le tecnologie, le mode, le ideologie. Cambiamo noi, il nostro modo di pensare, il nostro modo di ricordare la musica: perché la musica -sembrerà scontato- rievoca sempre una situazione, una circostanza che abbiamo vissuto o che potremmo vivere, ci lega a un passato e ad un futuro; ma potrebbe anche essere un semplice piacere, un pezzo di storia che non ci riporta a nulla se non al naturale svolgersi della sequenza delle note, e qui la memoria che usiamo per ricordare la musica può essere aggiornata, cioè, il ricordo di un brano, di una canzonetta o quant’altro di attinente, si può rinnovare, può acquisire un valore nuovo. Pensate cosa potrebbe essere oggi per noi (intendo noi che li abbiamo amati per la durata necessaria fino a non farli più essere una novità) ascoltare i Doors, da lontano, aldilà delle ideologie, delle mode e delle crisi adolescenziali: tutto ci appare nuovo. Scopriamo il cantante, eccentrico, trascinatore, trasgressivo, grande interprete dal vivo delle sue poesie; l’assenza del bassista sapientemente compensata dalla performance continua del tastierista; un chitarrista particolare, apparentemente composto, di quelli che ce ne sono pochi in giro; la batteria scandisce l’intero ipnotico incanto. Mi è capitato qualche giorno fa di ascoltarli, era parecchio che non li sentivo, anni. Li ho riscoperti, e non sono legati a un momento passato che ricordo particolarmente della mia vita, anzi, è forse questo il motivo che fa sì che possano aggiornarsi come ricordi musicali. Così come i Doors, centinaia di altri gruppi, di generi diversi, musiche di tutte le epoche... ecc, ecc.
Ma è così bello, oggi, io quarantenne ancora acerbo uomo, sentire qualcosa di nuovo, udire F. Battiato e C. Consoli intonare un concetto senza tempo: tutto l'universo obbedisce all'amore. Veramente bello, aldilà della novità o dell'originalità delle solite insolite tematiche e melodie riproposte. Bello, aldilà di quello che sono oggi, come ricoderò questi momenti in poltrona ad ascoltare, e ancora, aldilà di tutto quello che l'ascolto presente riverserà in un prossimo futuro e come potenzialmente vorrà condizionarlo, e in fine, aldilà del dubbio e la speranza che in un mo ipotetico "aldilà" ci sia ancora musica... Ascoltatelo.

Read more...

Mentre la città dorme

Succede di notte
mentre la città dorme
che tra i suoi meandri
nulla vi riposi

se non dei grandi
le immagini imponenti
e dei comun mortali
l’esito delle gesta.

Ed è poi di notte
che soli nelle tane nostre
torniamo a desiderare
chi in altre focose notti,

tra ispidi cespugli
e degenerati ambienti,

offriva solo il corpo,

o chi in altri ancor momenti
l’anima sua donava

e senza fisico contatto
il cuore d’improvviso
ci incendiava di passione;

mai e poi mai
scorderemo il volto loro

al tiepido lume della luna
dolcemente illuminato,

nei giardini sconsacrati
o nel puro e casto sentimento
chiedere ancor l’amore.

Ed è poi al nascere del giorno
che ignavi nella vita nostra

fra cianfrusaglie inutili
e artifici dai media mitizzati

scegliamo per sola convenzione
un viso nuovo da mostrare, lindo,

dove l’amor che tanto è sacro
non ne addolcisca troppo i lineamenti,

dove l’amor più umano e osceno
non vi incida del piacer le rughe.

Torneremo a sognar presto
nei languidi tuguri,
nei suntuosi palazzi

chi soddisfa il material desio,
chi giurerebbe amore eterno sull’altare;

e noi poveri relitti
sembriam svegliarci solo a tarda sera
dopo che la città nostra

ha dormito un sonno non suo,
vissuto una vita che solo è parvenza,

illusione,

nefande nostalgie
di glorie antiche e ardori.

Ma su ogni viso
che teso al bello tiene

dei grandi si riflettono
le opere imponenti

dei comun mortali vedi
l’esito delle celate gesta,

tra viali, piazze e monumenti
d’una metropoli
che è d’arte il suo destino

che non indossa ancora,

ahimè!

tra i suoi paesaggi

il profumo
dei miei lontani amori.

Read more...

Sogni felini

I gatti o.g.m. furono una notevole rivoluzione nel campo socio/commerciale. Per la modica cifra di 500 € si poteva avere un animale domestico, affettuoso fino alla nausea, che rispondeva a tutte le esigenze del cliente. C’era chi li preferiva asessuati, statici, quasi dei peluche da sistemare sul salotto. Alcuni li volevano inclini alle arti, altri che svolgessero le mansioni domestiche, altri risoluti e stizzosi. Poi, per le altre eventuali bizzarre richieste, c’erano i gatti portati per le scienze, quelli da guardia con artigli e denti assai più consistenti, quelli che praticavano gli sport più disparati.
Alberto –­così c’era scritto sul collarino– l’avevo trovato accucciato sul davanzale, ancora cucciolo, mi aveva scelto come padrone. Non sapevo se fosse un o.g.m., faceva tutte le cose che fanno di norma i gatti: apriva le porte usando la maniglia, si fingeva zoppo quando voleva essere coccolato, ordinava da solo via internet le scatolette di vitel tonné che adorava, teneva il telecomando della tv stretto nelle piccole fauci quando c’era Quark o La macchina del tempo; aveva preso il vizio di fumare quando era troppo nervoso; mi prenotava –sempre via internet– un appuntamento con lo psicanalista quando mi vedeva depresso; era membro onorario del CICAP.
Quando sprofondava nella fase REM, il mio gatto, era solito impersonare scorribande e duelli all’ultimo artiglio; ne sono sicuro, lo capivo dal movimento schizoide delle sue vibrisse. Ma forse era solo un’impressione, passavo ore ad osservarlo, mi chiedevo cosa mai stesse sognando; sicuramente se ne sbatteva altamente di tutta la psicologia froidiana, forse, invece, rincorreva i misteri della meccanica quantistica, ipotizzava collegamenti tra particelle ad una velocità superiore a quella della luce, per poi chiedersi dove fosse finita (o infinita?) la massa. Oppure cercava di avvertire e intrappolare un neutrino mentre furtivamente lo trapassava. Oppure ancora, stanco dei comportamenti incongruenti che assume la materia a livelli subatomici, si divertiva a srotolare con le graziose agili zampette i gomitoli cromosomici del suo DNA, quasi a rintracciare quei geni di troppo, quelle variazioni genetiche che scatenavano in lui anche i dubbi dell’etica scientifica. Non c’è che dire, eravamo proprio una bella coppia di esseri viventi! Tutti lo sanno: il gatto è per sua natura curioso. E tutti sanno anche che l’uomo è curioso. I gatti sono o.g.m., gli uomini sono anch’essi o.g.m. e tutto ciò che oggi vive è o.g.m., e siamo ancora tutti tremendamente curiosi.
Per lo strano contatto telepatico che si stabilisce tra un uomo e un animale che convivono, ci conoscevamo perfettamente a vicenda. Gli volevo bene e lui me ne voleva. Colmava un vuoto della mia vita che la famiglia, gli amici, le donne, non erano riusciti mai a riempire. Condividevamo lo stesso amore per la scienza, la fantascienza, l’ignoto. Così avevo imparato a sognare con lui, a vivere le sue fantasie, a rinnegare il principio di indeterminazione di Heisemberg e stabilire contemporaneamente la velocità e la posizione degli elettroni, per poi saltare su di essi da un’orbita all’altra sfruttando quanti d’energia. In quei giorni che ci accostavamo alla vecchiaia, io sulla poltrona, lui nel cestino da frutta, assaporavamo il gusto stravagante della microfisica. Sperammo a lungo, di finire prima o poi nel nucleo dell’atomica giostra.
Sono quindici giorni che non torna a casa, sembra che qualcuno l’abbia visto mentre si faceva accarezzare da un barbone giù alla baraccopoli degli ultimi esemplari umani di organismi non geneticamente modificati; lo aspetto, anche lui deve fare le sue esperienze e del resto non l’ho mai imprigionato: è sempre stato libero di fare, dire, pensare quel che voleva. Però mi manca. Lo aspetto, aspetto il miagolio nervoso dietro la vetrata di casa a dire «allora, mi apri o no?». Aspetto.
Il mio gatto era veramente un portento o semplicemente si beava adagiato nel suo cestino da frutta imbottito con ritagli di coperta caldi e puliti? Eppure, o.g.m. o no, aveva tutta l’aria di chi la sa lunga. Anche quando dormiva!

Read more...

La mitad del mundo (di U. Mantaut)

Fra i meridiani e i paralleli l’Equatore è il re, con la sua corte invisibile di linee che avvolgono la Terra da nord a sud, da oriente a occidente.
L’Equatore è un sovrano panciuto, con 40.000 km di circonferenza, perciò merita molto rispetto. Sulle navi si saluta il suo attraversamento con lo champagne, in aereo lo si ricorda appena fra le notizie di rotta, ma per via di terra l’incontro suscita grande emozione.
Poco a nord di Quito gli ecuadoriani hanno eretto uno dei più strani monumenti esistenti al mondo, un obelisco all’Equatore, un omaggio al dio Sole, Inty.
Si esce dalla città in un paesaggio brullo per l’altitudine e le colate laviche che castigano la vegetazione. In breve si raggiunge San Antonio de Pichincha e si fa sosta in un piccolo ufficio dall’aspetto molto burocratico. Un funzionario rilascia al viandante un solenne diploma alla presenza di due testimoni. I timbri ufficiali consentono di essere ammessi alla visita del monumento equatoriale con le carte in regola.
Eccolo, finalmente, l’Equatore materializzato al suolo sotto forma di una linea di cemento grigia in campo rosa. La metà del mondo!
Ci si può mettere a gambe divaricate, un piede nell’emisfero nord, l’altro nell’emisfero sud, un occhio alla Stella polare, l’altro alla Croce del sud. Ci si può stringere la mano stando in due parti del mondo differenti, mentre a nord è estate e a sud pieno inverno.

Read more...

... introduzione...meditazione ...

>> domenica 1 febbraio 2009

Si potrebbe benissimo avere la ponderatezza necessaria, quindi non il parziale giudizio, per depredare quest’opera del suo effettivo senso reale, oppure si potrebbe tentare di instaurare un rapporto, seppure aleatorio, con le vere aspirazioni dell’autore, cioè, intendo, intrecciare un legame assoluto e indivisibile con l’effettiva costituzione di ciò che logicamente, convenzionalmente, dovrebbe seguire. Ma trovare un senso, uno scopo, una delucidazione, sfugge ad ogni razionale e matematico ragionamento, giacché, come nel gioco della più antica seduzione, il significato si mostra e non si mostra, usando come unico mezzo di comunicazione, le metafore, i doppi sensi, le divagazioni apparentemente superficiali, le sintesi drastiche e brutali, le cadenze ritmiche nei versi, poi, colori, immagini, suoni, e quant'altro possa ridestare in noi un sentimento frenato fino ad allora dall’inconscio.
Comunque, non voglio essere tedio. Io stesso non sopporto le introduzioni; o almeno, quelle in cui l’introduttore esplora selvaggiamente le pieghe più nascoste dell’autore, con la presunzione di averne rivelato, dopo innumerevoli pagine e noiosi interventi critici, una verità prosaica; banalmente esposta, se pensiamo che l’autore dell’opera ha, o avrebbe -se ne avesse avuto un motivo plausibile- riassunto il tutto in poche righe, poche scarne parole, pochi ma completi e fondamentali concetti. Ho quasi l’impressione, che nello scrivere un’introduzione ad una ipotetica opera, si venga immancabilmente rapiti da un desiderio occulto e alquanto deleterio di eguagliare intellettualmente l’artista a cui si ha dedicato tanto tempo, di cui si ha letto e straletto, di cui si invidia il grande talento letterario, che, a questo punto, si ama più di sé stessi.
Ma allora cos’è un’introduzione? Una mano severa e paterna che ci guida verso i meandri più nascosti dell’intero universo della conoscenza umana, o uno spazio dove l’autore della discussa opera non ha più accesso, non ha più voce -se non attraverso i cenni storici, la cronologia, le tendenze politiche, le dicerie rionali trapelate da chissà quale fonte- e dove non ha nessuna possibilità di ribattere e di smentire? Non c’e scampo: alla fine si tenta sempre di opporre all’arte la ragione. Di quale ragione si tratti, poi, resta ancora da stabilire, e non è questo il momento, la sede, l’intento; non sono neppure io la persona adatta... sono sempre stato troppo carente nello studio, nelle letture, nel lavoro, nell'impegno sociale e nel normale svolgere delle attività umane; ho sempre e solo studiato ciò che mi interessava, ho letto soltanto quello che mi interessava, ho lavorato il giusto necessario, mi sono impegnato verso gli altri limitandomi soltanto a non danneggiare mai nessuno, e per quanto riguarda l'attività normale umana sociale conseguita negli anni è stato solo un preponderare proteso verso un individualismo al limite di un' egocentricità e di un narcisismo sfacciato. In poche parole: mi sono fatto sempre gli affari miei.
Certo, si potrebbe benissimo avere la ponderatezza necessaria, quindi non il parziale giudizio per depredare quest’opera del suo effettivo senso reale, oppure si potrebbe tentare di instaurare un rapporto, seppure aleatorio, con le vere aspirazioni dell’autore, cioè, intendo, intrecciare un legame assoluto e indivisibile con l’effettiva costituzione di ciò che logicamente, convenzionalmente, dovrebbe seguire... ma... qui non segue assolutamente niente, una introduzione così non so proprio cosa dovrebbe precedere o a cosa dovrebbe introdurre, tutto è fine a se stesso, ed io, volevo in qualche modo dimostrare quanto a volte, dispersi nel più insano cinismo, possiamo essere egoisti senza rendercene conto.

Read more...

L'eterno divo

Mi guardo allo specchio e vedo un uomo schivo
quasi da buttare al secchio, non più l’eterno divo…
ne sono passati di anni tra odi di tormentati amori
ne porto ancora i danni e il tempo stinge i colori.

Poche le persone io ricordo lasciate per la stanca via
e un rimbombo tanto sordo segue come l’ombra mia
e quanto sognai lungo canneti che posero una impura tregua
alle chimere di brillanti roseti …la mente, poi il corpo s’adegua.

Di tanto in tanto colgo l’emozione di un momento
sfugge mentre me ne dolgo, forse è quel risentimento
per l’amore dissipato in mare, lasciato in balia delle maree
ma è forse peccato, amare? Restano cose e persone eteree.

Ed ero così vivo e schivo
ero come un eterno divo
che confidava il suo peccato al mondo.

Allora stanco presi la vita per le rime

tessevo la trama ardita
con telai di scenari diversi

poi misi l’arte nella vita
e un po' d’amore nei versi.

Read more...

Una misteriosa valigia

Non sembrò molto stupito, Marcello Prode, quando la grande scalinata di Via del Pensiero si presentò ai suoi occhi come qualcosa di insormontabile: qualcosa che appariva, in quella strana mattinata di marzo, simile a una salita interminabile in cui si dimenavano tra gli angoli retti i rigidi gradini di pietra. Era una sensazione che aveva già provato, una situazione ambigua che era riuscito a superare altre volte e che avrebbe superato ancora.
Prima di iniziare l’onerosa scalata era solito sedere suo primo gradino a guardare con quanta facilità gli altri passanti oltrepassavano l’ostacolo. Non si trattava di forza fisica né di buona volontà, era piuttosto un’ossessione latente che albergava nelle più normali manie quotidiane per poi esplodere non appena M. si trovava ai piedi della lunga scalinata: il respiro si faceva affannoso, la fronte gelava, il colletto della camicia stentava a trattenere quel collo sempre rigorosamente coperto da una sciarpa di lana; vedeva i pioppi beffeggiarlo dall’alto della piazzetta situata alla fine della scalinata.
Quel giorno M. mentre sedeva sul primo scalino, meditando su come la gente passava dalla strada alla piazzetta – per raggiungere il capolinea delle corriere dirette ai paesi limitrofi – attraverso la scalinata, si imbatté nella persona che avrebbe liberato nella sua mente il misterioso dilemma della valigia.
La folta barba bianca e il soprabito di chissà quanti anni fa, lasciavano intravedere una figura goffa e vacillante. Nella mano destra stringeva un ombrello che usava per sorreggersi nell’andare incostante, e nella sinistra il manico di una vistosa valigia di pelle marrone; ai piedi, delle scarpe di camoscio; un vecchio cappello stile fine ottocento copriva la chioma argentea; i rossi sulle guance contrastavano l’apparente età di ottant’anni. La grossa figura faceva fatica a trascinare quella valigia, tanto pareva che questa pesasse quintali.
M. lo guardò arrivare e il suo primo pensiero fu come avrebbe fatto a salire le scale portandosi dietro quell’enorme fardello, non era il solito passante, uno di quegli automi veloci e sicuri che vedeva spesso quando di tanto in tanto alzava gli occhi dal pavimento.
L’uomo che chiameremo signor T.E.M.P.O. – ossia: Temporaneamente Espresso Mediante Poema Ordinario – appena giunto alla scalinata posò a terra la valigia, estrasse dalla tasca interna della giacca un fazzoletto bianco, o per lo meno doveva esserlo quando era stato pulito per l’ultima volta, con cui asciugò le gocce di sudore tra le pieghe vissute della fronte.
«Giovanotto!» chiamò indicando con la punta dell’ombrello verso M. che era ancora seduto sullo scalino, «Giovanotto, sarebbe così cortese da aiutarmi a portare in cima la valigia?» chiese con tono educato ma deciso puntando in alto l’ombrello.
«Dice a me?» rispose M. ancora immerso nelle sue osservazioni.
«Sì, sì, dico a lei. Sarebbe così cortese? Di solito ce la faccio da solo ma oggi sono così stanco che se qualcuno non mi aiuta la lascio qui, la valigia intendo».
«Ma le pare, sarebbe un piacere rendermi utile ogni tanto» e M. si alzò ed ora quella sensazione di impotenza era svanita. Fece per prendere la valigia quando con un gesto veloce del braccio il signor T.E.M.P.O. lo fermò «E’ sicuro di farcela?» domandò, «Sì certamente,» rispose M. scrollando la testa «sarà una passeggiata!».
Presto si rese conto che non sarebbe salito nemmeno di un gradino con quella valigia, era più pesante di quanto potesse ancora immaginare. Provò a prenderla in braccio evitando la maniglia tagliente; provò a piegarla obliquamente per spingerla con la schiena; provò a far leva con un randello raccolto là vicino; tentò perfino di farsi aiutare da un suo contemporaneo, ma questi non appena provato ad alzare ebbe uno strappo alla schiena e se ne andò ricurvo maledicendo il giorno che era passato da quelle parti.
«Ah questi giovani d’oggi!» esclamò adirato il signor T.E.M.P.O. «Non hanno più voglia di fare il minimo sforzo. Ai miei tempi avrei fatto di tutto per aiutare qualcuno in difficoltà».
«Senta: perché non proviamo ad alleggerirla togliendo qualcosa? Magari potrei dividere il peso e fare due o tre viaggi» propose M..
«Impossibile!»
«Perché?»
«Quello che c’è dentro può essere descritto, quantificato, diviso, ma non trasportato al di fuori del suo contenitore»
M. accennò un sorriso, «Mi sta prendendo in giro?».
«Non mi permetterei mai egregio giovanotto, purtroppo è così. Le cose che ci porto dentro fanno parte della mia vita, ho provato a d abbandonarle, ma non è possibile, me le ritrovo sempre tra i piedi, tanto vale portarmele dietro in questa valigia, e poi non potrei fare altrimenti, nessuno può fare altrimenti …le ho già detto che non possono essere trasportate al di fuori de questo contenitore?»
Mostrando una lieve espressione di meraviglia, quasi un sarcastico stupore il signor T.E.M.P.O. che per ragione che non sto qui ad elencarvi chiameremo più semplicemente Tempo, terminò: «Mi dica: lei non possiede ancora una valigia?»
«No, perché, dovrei?» chiese M. mentre si stropicciava gli occhi con i palmi delle mani.
«E perché non dovrebbe?» ribatté tempo.
«Perché non ho nulla da portarci dentro, tranne, ovviamente, se devo partire per qualche posto»
Tempo si passò la mano più volte sulla barba incolta e irsuta, e con fare di chi gli è appena saltato in mente un pensiero di passaggio sussurrò osservando la sua valigia «…qualche posto, sì, devo essere stato in qualche posto. Dove si trova esattamente? Aspetta» poi si sedette accanto alla strana cosa. Si sedette anche M. incuriosito da ciò che Tempo avrebbe detto o fatto.
Tempo girò l’apertura verso di sé in modo che l’altro non potesse vederne il contenuto. L’ aperse e dopo averci frugato a lungo non ne trasse nulla , così fu la prima impressione di M. quando il sempre più losco signore gli si rivolse dicendo: «Ecco qui!».
«Cosa?»
«Non vedi?» incalzò Tempo.
«No, non vedo niente» ribatté M..
«Non vedi nemmeno il lago ghiacciato dove bambino andavo a pattinare e la vecchia scuola del paese dove studiò anche mio padre? Non vedi la via principale che conduce alla grande piazza dove andavo a giocare con i miei amici e dove per la prima volta baciai una ragazza? Sai, Molto tempo dopo diventò mia moglie»
M. non vedeva alcunché di quello che gli veniva mostrato, ma presto si rese conto del contrario mentre Tempo tirava fuori apparentemente dalla valigia di tanto in tanto nuove cose. Ora poteva vedere, o meglio, sentire attraverso le minuziose descrizione di quell’uomo: la calda atmosfera domestica della sua casa natale; il lungo viaggio per l’Europa alla ricerca di chissà cosa; i dolci lineamenti della sua sposa, che pareva fosse morta in seguito ad una malattia; gli anni in cui passò tutte le sere al Café de Paris a bere e a fumare; le esperienze artistiche vissute sotto l’effetto dell’hashish; le esperienze sentimentali ed erotiche con le prostitute tedesche; mille altre cose ancora…
M. distolse gli occhi dal vuoto riportando la sua attenzione sulla misteriosa valigia di pelle marrone. Cosa poteva contenere? Era così pesante. Pensò che fosse piena di libri, piena zeppa di album fotografici, che contenesse uno di quei superati computer con tanto di batteria gigantesca; pensò pure a degli oggetti incorporei simili al gas, che non appena usciti dalla valigia si dissolvevano per poi ricomporsi immediatamente nelle parole nostalgiche di Tempo.
«Potrei guardare nella sua valigia?» chiese timidamente M. «soltanto una sbirciatina…».
«Giammai!» affermo Tempo, «il suo contenuto è strettamente personale».
«Mi dica almeno di cosa si tratta» insisté M.
«Giovanotto, si è fatto tardi, devo andare» terminò bruscamente Tempo.
Lo strano signore si alzò, prese la valigia e si avviò sui gradini ascendenti della scalinata. M. lo salutò con un gesto della mano. Adesso sembrava che la valigia non pesasse più di qualche chilo, dato che Tempo la portava quasi con disinvoltura mentre saliva. Come era possibile che una cosa così pesante che M.: non riuscì a spostare di un centimetro, di colpo, fosse diventata un bagaglio più o meno normale?
Non passò molto tempo che M. decise di intraprendere la solita scalata. Salì facilmente, come facevano gli altri, senza voltarsi indietro a guardare lo spazio percorso, senza nemmeno essere impressionato dalla prospettiva del paesaggio sottostante che ad ogni gradino superato mutava sensibilmente.
Raggiunta la sommità, si condusse alle panchine disposte in cerchio nella parte centrale della piazza, sotto gli alti aceri, intorno alla fontana, dove per la seconda volta incontrò Tempo. Era seduto sulla panchina intento a rovistare nella sua valigia tenuta sulle gambe, e appena scorse M. arrivare la richiuse di scatto.
«Bene, ci rivediamo ancora» fece Tempo trasparendo dal viso una ironica espressione.
M. lo fissò intensamente mentre si sedeva accanto a lui, «Ci sono ancora le cose nella sua valigia? Ho visto che l’ha portata senza nessuno sforzo».
«C’è ancora tutto»
«E come mai adesso è così leggera?»
«Perché ho imparato a sopportarne il peso»
«Il peso di cosa?»
«Il peso delle cose che ci porto dentro» rispose accennando un sorriso. «lei è così giovane, non può capire » Detto questo, invitò l’altro che era ancora in piedi a sedersi accanto a lui.
«Caro giovanotto, sono sicuro che presto anche lei avrà una valigia, e come me, potrà spostarla solo con le sue mani. Ma mi tolga una curiosità: come è possibile che non ha ancora una valigia? »
«Mah, io…» mormorò M. guardandosi intorno «io non penso di averne bisogno».
«Mi scusi l’impertinenza: ma dove tiene le sue cose? »
«Quali cose intende, precisamente? »
«Le cose… ha mai letto Proust» chiese Tempo.
«No, non direi, anche se non può certo passare inosservato il suo esagerato, ma così affascinante, attaccamento al passato; le notti chiuso nella sua stanza che aveva provato in tutti i modi di isolare dal mondo; le innumerevoli pagine manoscritte che occupavano la scrivania, quelle pagine che nella Parigi del nuovo secolo contrastavano le futili mondanità di fine ottocento; l’asma che lo costrinse alla reclusione fin dalla prima infanzia e che allo stesso tempo acutizzava sempre più il suo spirito di osservazione e l’eccezionale talento letterario. No, non l’ho mai letto» terminò M. rotolandosi la sciarpa di lana più volte intorno al collo.
«Lo immaginavo, è un vero peccato, mi creda» disse Tempo accarezzando le scintillanti chiusure metalliche della valigia, «se lo avesse letto ora avrebbe anche lei una valigia come la mia».
«Non saprei che farmene! » gridò M..
«Non ci credo» incalzò Tempo.
«Guardi, ho tutto nelle tasche: il telefono, il portafogli, le carte di credito, le chiavi, il manuale del giovane arrivista, “La nausea” di Sartre, un orologio, l’accendino, l’aerosol portatile, una cicca, incarti di cioccolatini, gomme da masticare riciclate, integratori alimentari contro l’invecchiamento, antiemetici, antibiotici, antiparassitari, e…»
«E le altre cose? » domandò annoiato Tempo.
«Non so…» rispose M. volgendo lo sguardo verso i bambini che erano appena arrivati a giocare nella piazza.
I due rimasero per molto tempo in silenzio, seduti sulla panchina. M. ipotizzava attraverso inutili e fantastiche congetture cosa mai potesse contenere la misteriosa valigia del signor Tempo, e questi, dal canto suo, era restio dal rivelarne le natura.
«Sapesse quanto mi piacerebbe averne una» sospirò M. rompendo il silenzio, «vede signore, ho cercato di dimenticare tutto, tutto ciò che mi è accaduto e in un certo senso lei ha contribuito a rendermene conto: se avessi una valigia come la sua, potrei conservarci tutto il tempo che imparerei a ritrovare; proprio come lei, perché è questo l’insieme di cose che custodisce tanto gelosamente nella valigia, non è vero? ».
Tempo non rispose, salutò M. con una poderosa stretta di mano, si alzò, prese il bagaglio e si avviò per la sua strada. Dopo pochi passi si rivolse per l’ultima volta a M. che era rimasto seduto sulla panchina ad osservare il movimento continuo dell’acqua sull’immobile struttura della fontana «Non dimentichi di prendere la sua valigia, mi raccomando! » gridò con tono severo.
«Quale valigia? » chiese M..
«Quella accanto a lei…» rispose Tempo riprendendo la via.
M. si voltò di scatto: vicino a lui c’era una bellissima valigia di velluto rosso. Subito se la sistemò per bene sulle gambe tremolanti per l’emozione e trovato il coraggio necessario la aprì lentamente.
«Quante cose! » esclamò tra sé e sé. «Questo è il mio vecchio trenino elettrico, compagno di tante giornate; qui le scarpe quasi inutilizzabili che per anni mi ostinai a portare; qui le cose più brutte, per ora non voglio guardarle; qui le lente, lunghe ore passate in solitudine a domandarmi perché mai il tempo che passava era così atroce; qui le pareti della mia stanza illuminate dalle prime luci del mattino; qui la mia famiglia; qui i posti che hanno incorniciato la mia esistenza, le mie impressioni, le poesie, gli amori sofferti e perduti, i libri letti, e tutte le cose passate, perse ed ora ritrovate e comprese».
M. passò gran parte della propria vita seduto su quella panchina a frugare nella valigia di velluto rosso e adesso la scalinata che da Via del Pensiero conduceva alla piazza sovrastante, dove era solito sostare, non era più un problema.
Trovò tutto, in quella che ora era per gli altri soltanto un bagaglio pesante. Trovò perfino, nascosto in un angolo della valigia, il regalo che suo padre gli lasciò per il dodicesimo compleanno, proprio prima di morire: un regalo meraviglioso… se allora avesse potuto capirlo.

Read more...

Abbey Road - 18 nov 2007 (di U. Mantaut)

Il muretto e le colonne dei cancelli della famosa casa discografica sono zeppi di firme di fans o di turisti curiosi, qualcuno ha lasciato rozzi murales e frasi di natura politica che nulla hanno a che fare con la musica. Le strisce pedonali sono ancora là dove finisce la Abbey Road, confluendo nella Grove End Road per lasciare il tranquillo quartiere residenziale di Maida Vale in direzione di Marylebone e il centro.
Della curiosa copertina di uno dei più famosi long-playing dei Beatles mancano troppe cose. Gli idoli della nostra gioventù sono scomparsi da tempo come complesso e qualcuno fisicamente, ma sembra ancora di rivederli attraversare in fila indiana la quieta strada londinese. Non c’è traccia del maggiolino bianco targato LMW281F al quale sono stati attribuiti significati allegorici. Gli alberi sono stati sfrondati e in autunno sono spogli, lasciando vedere le facciate di mattoni rossi delle residenze borghesi.
Eppure, qui si viene come in pellegrinaggio per ricordare anni e canzoni indimenticabili.
Ad Abbey Road arrivano ammiratori maturi e nostalgici, ma stranamente anche tanti giovani. Tutti s’impegnano ad attraversare sulle mitiche strisce, in segno d’omaggio e per l’immancabile fotografia. Cade a tratti la pioggerella londinese, l’asfalto è bagnato, le strisce avrebbero bisogno di una mano di vernice. Nessuno s’azzarda ad imitare Paul Mc Cartney, il più bello e fortunato dei quattro, che attraversava scalzo, senza cravatta e con la sigaretta fra le dita della sinistra.

Gli automobilisti educati e pazienti si fermano per lasciar passare i pedoni, non si meravigliano per quel continuo andare e tornare che alcuni fanno per ripetere le foto in pose diverse. In lontananza spicca un tipico bus rosso a due piani diretto in centro. La pioggia aumenta d’intensità, bisogna salire a bordo e lasciare alle spalle Abbey Road e le nostalgie degli anni ‘60, ed è nuovamente “Yesterday”.
Questa volta il volo a Londra da Roma, euro 62 andata e ritorno con Ryanair, non ha avuto una ragione precisa. Solamente rivedere amici e luoghi cari, bighellonare fra la folla di Covent Garden e Leicester Square, ammirare le luminare prenatalizie della Oxford Street, ritrovare le atmosfere umide dei ponti e del Victoria Embankment sorvegliato dal moderno London Eye, una specie d’immensa ruota del Prater realizzata con dubbio gusto presso la London County Hall, proprio sulla sponda del Tamigi opposta a Westminster.
Come tante nostre città, Londra peggiora in un certo senso. Sempre più congestionata, nonostante i divieti e le dissuasioni, troppo affollata da stranieri, piena di fast-food che la riempiono di odori orientali ed arabi, forse più pericolosa. Anche chi è avvezzo
a districarsi nel caos del “tube” non può fare a meno di pensare, quando sta pigiato nelle vetture della metropolitana, a cosa potrebbe nuovamente accadere in caso d’attentato su quei treni affollati, lanciati nel buio d’interminabili gallerie strette e puzzolenti. Insomma, non si vive più tranquilli in quella che era la metropoli più ordinata e signorile del vecchio mondo.
I veri londinesi vivono quasi tutti fuori Londra. Si torna a St. Albans. La romana Verulamium rivive nel modernissimo, piccolo museo realizzato per ospitare i reperti della regione che si è rivelata un autentico giacimento archeologico di prima grandezza. La visita sorprende per la cura che è stata profusa nel realizzare l’eccezionale esposizione di grande interesse turistico e didattico. Fuori piove, ma nelle calde navate della meravigliosa Cattedrale si svolgono le prove di un concerto di Natale. Per finire, tutti al pub per una bella cena con ottime birre. A gentile richiesta una vecchia canzone di Burt Bacharach, “I’ll never fall in love again”.

Read more...

... foto...meditazione ....

>> lunedì 5 gennaio 2009

Ancora un attimo, sto pensando...

potrei elencarvi tutti i particolari più suggestivi che hanno contribuito a rendere la mia vita un turbine di emozioni mozzafiato, potrei iniziare a parlare di quando avevo cinque anni e mi sono tirato adosso tutti i fornelli con tanto di pietanze in cottura (volevo vedere che c'era in cottura) e ne sono uscito illeso per miracolo; per poi poseguire con: quando a sei anni sono caduto da un albero sulla macchina della maestra (poi colta da malore per lo spavento) e non lo feci affatto apposta...; per poi continuare con quando alla soglia dei sette anni... ma sarò più breve: 10 minuti fa non sapevo nemmeno su cosa meditare e allora cliccando selvaggiamente tra le directory del pc ho trovato questa foto ritoccata, o meglio, stravolta dagli innumerevoli strumenti grafici di cui oggi possiamo facilmente avere disposizione, stravolta? sì ma allo stesso tempo mantiene sempre lo stesso soggetto, nulla di speciale: due amici seduti su un divano dopo cena.
Ecco, lascio a voi la meditazione del mese (che a questo punto diventa anche foto del mese). Bene, guardatela e dite (o pensate) quello che l'atmosfera un pò "pop art" vi suggerisce. A me piace molto il contrasto dei colori, forse è una delle migliori che ho creato, ma non posso essere obiettivo poiché io ne sono l'autore e inoltre il soggetto o i soggetti, sono due miei amici.

Read more...

Giorni

Non sono ancora venuti
i giorni che allora aspettai
quando sulla verde collina
correvo solo e spensierato.

La vecchia quercia
mi aspettava lì in cima
ergendosi ancora fiera
verso la scura notte

e mi promise giorni
ore e minuti d’una vita
che avrei trascorso
dopo l’opaca sera.

Mia fu quella notte immatura
che si estendeva oltre i confini

e mio fu il nuovo mattino
giunto così all’improvviso

mentre contavo sulle dita le stelle.

Read more...

Un nuovo anno

Il capodanno del duemilauno fu veramente qualcosa di strano. Non perché quella notte mi sentissi particolarmente solo e dimenticato, ma piuttosto per il fatto di aver voluto, in piena coscienza, trascorrere la notte di San Silvestro solo e sconsolato; del resto, le prospettive per una serata tranquilla, se avessi scelto di festeggiare con gli amici, erano nulle o quasi, tutto si sarebbe risolto come di solito: deliri alcolici, innumerevoli brindisi alla salute e "alla faccia de chi ce vò male", traumi fisici e psichici, e soprattutto, quella irrepremibile sensazione di angoscia che ci coglie proprio all’ultimo secondo del countdown, mentre tutti gli altri sono pronti ad esultare e noi, magari sprofondati su un comodo divano guardando la scena da lontano non desidereremmo altro che il silenzio; ma poi sorridiamo, esultiamo e gioiamo ugualmente con loro.
Quella sera volli evitare tutto questo, mi convinsi -seppure a forza- che sarebbe stato meglio tenermi da parte, e, pur volgendo un caro augurio di buon anno dal fondo della mia anima protesa in quel momento verso tutti, mi rintanai in casa, barricai la porta e inchiodai le finestre; come avrebbe fatto un evaso che dopo tanta attesa e bramosia di libertà, recluso in una cella a cielo aperto in cui non rappresentava altro che la propria insensata esistenza, sarebbe poi stato costretto ad evitare qualsiasi contatto con il mondo esterno, e di conseguenza essere lo stesso recluso.
Erano più o meno le undici e trenta quando seduto di fronte al computer quasi ipnotizzato dai milioni e milioni di bit -che poi, nessuno può veramente convincermi della loro reale esistenza- fui risvegliato dal suono acuto del mio cellulare. Erano alcuni dei miei amici, che quasi stupiti dalla mia incomprensibile assenza, mi invitavano a raggiungerli ad una festa presso casa di altri amici: «a Sa, aho!, n‘do stai, ma che cavolo fai?, nun fa er matto che rimani a casa da solo!» Ringraziai per l’invito, e risposi, modificando in modo rauco il tono della voce, che stavo poco bene; li salutai.
Non nascondo che nel chiudere lentamente lo sportellino del telefono, mi sentii sollevato ma allo stesso tempo perso, solo e indifeso, vittima e carnefice di quella sconosciuta evanescente entità che spesso ho idealizzato, eretto a modello di vita: quel me stesso schiavo e padrone delle più profonde passioni, che si scalda quando legge Neruda, che confessa a sé soltanto l’amore vero, che riluce di superbia se viene offeso, che odia essere troppo fuori o troppo al centro dell’attenzione altrui, che non sopporta frasi fatte e buttate lì con toni di sentenza. Ma il noto proverbio in questo caso trova la sua più pragmatica e peculiare essenza:
Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
Come già detto non sopporto i proverbi, sfortunatamente sono sempre stato attratto e influenzato da frasi del tipo:
I piaceri semplici sono l’ ultimo rifugio delle persone complicate.
Certo, mi rendo conto che queste frasi possano essere del tutto discutibili, tuttavia, come scrive lo stesso Wilde: nell’arte non si aspira mai al bene o al male, ma soltanto a creare qualcosa che abbia una certa bellezza. Quindi, ogni cosa che creiamo non mette in bella mostra altro che il nostro splendore o il nostro decadimento, spesso, nelle più alte espressioni, l’insieme delle due coagisce con il naturale e incosciente conflitto interiore dell’autore. Sì, il conflitto interiore dell’autore, forse l’unico e vero elemento che si trova alla base dell’arte e che tenta di rivelarne un significato tanto caduco nell’animo quanto straziante e immortale nella materia che con il genio si ha plasmato. Ma l’arte forse, in realtà, è solo un’illusione, poco ci appartiene, se pensiamo per un momento: «non starò esagerando un pochino?» Torniamo alla sera del trentuno dicembre.
Era quasi mezzanotte e c'era chi imperversava come non mai sulle reti nazionali, lo stereo riproduceva fedelmente le dolci e graffianti strofe di "Nella mia ora di libertà" di De André, fuori stava per scatenarsi il finimondo, ed io, più che mai adagiato sulla mia solitudine, sorseggiavo lentamente del buon brandy nostrano compera-to appunto per l’occasione.
Pensavo e ripensavo alla mia vita, alla mia presunta arte, alle glorie, alle amarezze, e sorseggiavo quel brandy, sorseggiavo, sorseggiavo, «non starò esagerando?…..Hic!».
Smisi di sorseggiare, non volevo certo ubriacarmi, perdermi nei vapori invisibili e inebrianti dell’alcool, lasciare la coscienza dell’io per l’imposizione dell’istinto e magari continuare a scrivere assurdità come queste. Anzi a un certo punto, proprio agli ultimi secondi, al finire del vecchio anno, decisi di usare la terza persona.
S. distrasse lo sguardo dal computer, era stanco di scrivere e di leggere e rileggere quello che aveva appena scritto, sentiva una lieve speranza pervadergli il cuore: forse il nuovo anno sarebbe stato migliore. Forse era soltanto un inutile inganno dei sensi, ma quella sera l’aria era leggera e delicata, tanto pareva di trovarsi in montagna e non in quella località marina dove S. viveva già da tempo; se ne accorse presto, quando schiodò le finestre e spalancò la porta, respirando a pieni polmoni l’odore incognito che il nuovo anno avrebbe per lui riservato.

Read more...

Puglia - La punta del tacco (di U. Mantaut)

Sul far della sera le strade del centro si animano e i leccesi confluiscono nella bella piazza di Sant’Oronzo, salotto buono della città, con il grande anfiteatro romano e il Palazzo del Seggio, detto il Sedile, costruito nel 1592 quand’era sindaco Pietro Mocenigo.
E’ l’ora dello “struscio”. La folla è composta in gran parte da giovani, gente bella, frutto di un millenario miscuglio multietnico. Nel Salento e più in generale in tutta la Puglia hanno vissuto, sono transitati e si sono insediati, spesso prepotentemente, quasi tutti i popoli del bacino mediterraneo e molti intrusi venuti da terre settentrionali, integratisi poi perfettamente nella parte più sudorientale dell’italica penisola.
I greci vi trovarono gli antichi abitatori japigi, messapi e salentini. Vi fecero incursioni i sanniti e i lucani. Roma lottò a lungo in queste contrade contro l’odiata Cartagine. Poi vennero goti, eruli, longobardi, saraceni e bizantini. Dall’est si affacciarono ungari e slavi, ma la fioritura culturale venne con i normanni, gli svevi e gli angioini, e successivamente con aragonesi e castigliani. Buoni ultimi i Borboni che, per la verità, consegnarono all’Italia dei Savoia una regione retrocessa a povera provincia agricola, con le potenzialità per ritornare ai giorni nostri ricca, prospera e civile.
Nei tratti somatici i salentini rivelano origini elleniche e levantine, arabe e balcaniche, mitteleuropee ed iberiche. Quasi mai corrispondono all’immagine stereotipata dell’italiano del sud. A Lecce s’incontrano bellezze brune con gli occhi verdi, bionde dalla carnagione olivastra, rosse lentigginose e more magrebine. La provincia ha un suo dialetto, ma quando questa gente parla in italiano non s’odono accenti fastidiosi, come se l’intera cittadinanza avesse frequentato corsi di dizione.
Lecce è una città colta, l’Atene delle Puglie.
E’ una città d’arte, la Firenze del sud. Tuttavia, quasi nessuno ha pensato di paragonarla ad un’altra città fantastica, Lecce è la Quito d’Europa. La lontanissima capitale dell’Ecuador non ha molto da spartire con Lecce per quanto concerne la posizione geografica. Lecce è un grosso centro che si è esteso in una ricca piana agricola fra due bracci di mare, Quito è arroccata sulle Ande impervie, a 3000 metri, circondata da giganteschi vulcani. E’ il centro storico delle due incredibili città che presenta stranissime somiglianze. Purtroppo, almeno per ora, solo Quito è protetta e dichiarata patrimonio dell’umanità, per le sue bellezze e l’eccezionale concentrazione di monumenti barocchi. Di Lecce e del Salento si parla poco, persino in Italia. Anche in questo modo si perpetua l’ingiustizia di considerare il nostro meridione come area depressa, priva di vere attrattive e, quindi, tagliata fuori degli interessi economici e dagli itinerari turistici.
Lecce, quasi pudicamente, ha avvolto il suo stupendo centro storico in una fascia di viali e giardini alberati, che separano la città antica dagli insignificanti quartieri moderni. Quando si perlustra il dedalo delle vie centrali dove si allineano splendidi palazzi o ci si addentra nelle piazze dominate dalle facciate barocche delle innumerevoli chiese si rimane a bocca aperta.
Sarebbe lungo enumerare tutti i capolavori dell’arte leccese. Basti citare Santa Croce e il Duomo, il Palazzo del Governo, quello vescovile e il Seminario, il Campanile, la Chiesa del Gesù, quella del Carmine, Sant’Angelo, i SS. Niccolò e Cataldo, Santa Chiara e San Matteo, senza contare le numerose residenze nobiliari dell’aristocratica città.
La pietra leccese è un calcare tenero che si lavora con scalpelli, pialle e accette, ma che all’aria indurisce ed assume il colore dell’oro fino.Così i grandi manufatti architettonici hanno piuttosto l’aspetto d'elaborate sculture, opere cesellate con raffinatezze d’alta oreficeria. Le facciate leccesi sono una profusione di colonne tortili, frontoni curvilinei, balaustre traforate, festoni di fiori e frutti di pietra, rosoni, sfilate di angeli, putti, maschere e cariatidi, balconi scolpiti, portali e finestre dalle ricchissime cornici piene di fregi, nastri e stemmi. Lo stile non è stato abbandonato negli interni, anzi, passando dalla luce accecante del mezzodì ionico all’ombra amica delle navate basilicali e dei saloni dei palazzi, il barocco si avvale di materiali ancor più duttili della pietra leccese. I marmi policromi e il legno, ricoperto con lamine d’oro zecchino, captano la fioca luce dei luoghi di culto e delle dimore patrizie e la rifrangono con effetti sorprendenti.. Gli altari sfavillano come scrigni traboccanti di pietre preziose, la cornici rischiarano i quadri come riflettori puntati da sapienti tecnici dell’illuminazione, santi e madonne sorridono indulgenti ai fedeli abbagliati dai loro paramenti sontuosi, degni di sovrani potenti, incommensurabilmente ricchi. In alcuni casi l’effetto è ipnotico e non si vorrebbe più andar via.
Da Lecce si dipartono come i raggi di una stella perfetta numerose strade rettilinee. Raggiungono le più belle località del Salento che si adagiano pigramente nella piana assolata o si allineano sulla costa luminosa dei due bracci dello Ionio, giù fino all’estremità del tacco dello stivale dove Santa Maria di Leuca spinge il suo sguardo verso il favoloso oriente. Ecco San Cataldo, con le sue spiagge, Otranto alla foce dell’Idro, Gallipoli protesa nel mare, e all’interno le bellissime cittadine di Nardò, Galatina, Maglie, Casarano, Copertino e Tricase. Ancora palazzi, castelli, cattedrali e mura. Città bianche con i forti chiaroscuri delle medine arabe, solo che nel Salento non ci sono minareti e le aree agricole non sono desertiche, bensì ricche di magnifici uliveti secolari, vigne generose, verdi agrumeti ed orti fertilissimi. Al paesaggio quasi monotono delle zone pianeggianti si contrappone la sorprendente bellezza delle coste frastagliate e rivestite della macchia odorosa, dove occhieggiano ruderi di antiche torri d’avvistamento, trulli, fattorie e ville.
Quando si giunge al Santuario di Santa Maria di Leuca, il Salento si protende nel mare nel punto in cui l’Italia riceve all’alba il primo raggio di sole. Siamo sullo Iapygium promontorium, detto anche promontorium Sallentinum o de Finibus Terrae, il tallone della penisola italica, 39° 47’ 41 “ latitudine N e 18° 22’ 13” longitudine E di Greenwich.
Secondo la leggenda o, se si vuole la superstizione, il pellegrinaggio in questo sito è un passaporto per il paradiso. Chi non ci viene da vivo dovrà qui recarsi dopo la morte.

Read more...

Lettori fissi

  © Blogger templates Shiny by Ourblogtemplates.com 2008

Back to TOP