Il capodanno del duemilauno fu veramente qualcosa di strano. Non perché quella notte mi sentissi particolarmente solo e dimenticato, ma piuttosto per il fatto di aver voluto, in piena coscienza, trascorrere la notte di San Silvestro solo e sconsolato; del resto, le prospettive per una serata tranquilla, se avessi scelto di festeggiare con gli amici, erano nulle o quasi, tutto si sarebbe risolto come di solito: deliri alcolici, innumerevoli brindisi alla salute e "alla faccia de chi ce vò male", traumi fisici e psichici, e soprattutto, quella irrepremibile sensazione di angoscia che ci coglie proprio all’ultimo secondo del countdown, mentre tutti gli altri sono pronti ad esultare e noi, magari sprofondati su un comodo divano guardando la scena da lontano non desidereremmo altro che il silenzio; ma poi sorridiamo, esultiamo e gioiamo ugualmente con loro.
Quella sera volli evitare tutto questo, mi convinsi -seppure a forza- che sarebbe stato meglio tenermi da parte, e, pur volgendo un caro augurio di buon anno dal fondo della mia anima protesa in quel momento verso tutti, mi rintanai in casa, barricai la porta e inchiodai le finestre; come avrebbe fatto un evaso che dopo tanta attesa e bramosia di libertà, recluso in una cella a cielo aperto in cui non rappresentava altro che la propria insensata esistenza, sarebbe poi stato costretto ad evitare qualsiasi contatto con il mondo esterno, e di conseguenza essere lo stesso recluso.
Erano più o meno le undici e trenta quando seduto di fronte al computer quasi ipnotizzato dai milioni e milioni di bit -che poi, nessuno può veramente convincermi della loro reale esistenza- fui risvegliato dal suono acuto del mio cellulare. Erano alcuni dei miei amici, che quasi stupiti dalla mia incomprensibile assenza, mi invitavano a raggiungerli ad una festa presso casa di altri amici: «a Sa, aho!, n‘do stai, ma che cavolo fai?, nun fa er matto che rimani a casa da solo!» Ringraziai per l’invito, e risposi, modificando in modo rauco il tono della voce, che stavo poco bene; li salutai.
Non nascondo che nel chiudere lentamente lo sportellino del telefono, mi sentii sollevato ma allo stesso tempo perso, solo e indifeso, vittima e carnefice di quella sconosciuta evanescente entità che spesso ho idealizzato, eretto a modello di vita: quel me stesso schiavo e padrone delle più profonde passioni, che si scalda quando legge Neruda, che confessa a sé soltanto l’amore vero, che riluce di superbia se viene offeso, che odia essere troppo fuori o troppo al centro dell’attenzione altrui, che non sopporta frasi fatte e buttate lì con toni di sentenza. Ma il noto proverbio in questo caso trova la sua più pragmatica e peculiare essenza:
Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
Come già detto non sopporto i proverbi, sfortunatamente sono sempre stato attratto e influenzato da frasi del tipo:
I piaceri semplici sono l’ ultimo rifugio delle persone complicate.
Certo, mi rendo conto che queste frasi possano essere del tutto discutibili, tuttavia, come scrive lo stesso Wilde: nell’arte non si aspira mai al bene o al male, ma soltanto a creare qualcosa che abbia una certa bellezza. Quindi, ogni cosa che creiamo non mette in bella mostra altro che il nostro splendore o il nostro decadimento, spesso, nelle più alte espressioni, l’insieme delle due coagisce con il naturale e incosciente conflitto interiore dell’autore. Sì, il conflitto interiore dell’autore, forse l’unico e vero elemento che si trova alla base dell’arte e che tenta di rivelarne un significato tanto caduco nell’animo quanto straziante e immortale nella materia che con il genio si ha plasmato. Ma l’arte forse, in realtà, è solo un’illusione, poco ci appartiene, se pensiamo per un momento: «non starò esagerando un pochino?» Torniamo alla sera del trentuno dicembre.
Era quasi mezzanotte e c'era chi imperversava come non mai sulle reti nazionali, lo stereo riproduceva fedelmente le dolci e graffianti strofe di "Nella mia ora di libertà" di De André, fuori stava per scatenarsi il finimondo, ed io, più che mai adagiato sulla mia solitudine, sorseggiavo lentamente del buon brandy nostrano compera-to appunto per l’occasione.
Pensavo e ripensavo alla mia vita, alla mia presunta arte, alle glorie, alle amarezze, e sorseggiavo quel brandy, sorseggiavo, sorseggiavo, «non starò esagerando?…..Hic!».
Smisi di sorseggiare, non volevo certo ubriacarmi, perdermi nei vapori invisibili e inebrianti dell’alcool, lasciare la coscienza dell’io per l’imposizione dell’istinto e magari continuare a scrivere assurdità come queste. Anzi a un certo punto, proprio agli ultimi secondi, al finire del vecchio anno, decisi di usare la terza persona.
S. distrasse lo sguardo dal computer, era stanco di scrivere e di leggere e rileggere quello che aveva appena scritto, sentiva una lieve speranza pervadergli il cuore: forse il nuovo anno sarebbe stato migliore. Forse era soltanto un inutile inganno dei sensi, ma quella sera l’aria era leggera e delicata, tanto pareva di trovarsi in montagna e non in quella località marina dove S. viveva già da tempo; se ne accorse presto, quando schiodò le finestre e spalancò la porta, respirando a pieni polmoni l’odore incognito che il nuovo anno avrebbe per lui riservato.
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