... introduzione...meditazione ...

>> domenica 1 febbraio 2009

Si potrebbe benissimo avere la ponderatezza necessaria, quindi non il parziale giudizio, per depredare quest’opera del suo effettivo senso reale, oppure si potrebbe tentare di instaurare un rapporto, seppure aleatorio, con le vere aspirazioni dell’autore, cioè, intendo, intrecciare un legame assoluto e indivisibile con l’effettiva costituzione di ciò che logicamente, convenzionalmente, dovrebbe seguire. Ma trovare un senso, uno scopo, una delucidazione, sfugge ad ogni razionale e matematico ragionamento, giacché, come nel gioco della più antica seduzione, il significato si mostra e non si mostra, usando come unico mezzo di comunicazione, le metafore, i doppi sensi, le divagazioni apparentemente superficiali, le sintesi drastiche e brutali, le cadenze ritmiche nei versi, poi, colori, immagini, suoni, e quant'altro possa ridestare in noi un sentimento frenato fino ad allora dall’inconscio.
Comunque, non voglio essere tedio. Io stesso non sopporto le introduzioni; o almeno, quelle in cui l’introduttore esplora selvaggiamente le pieghe più nascoste dell’autore, con la presunzione di averne rivelato, dopo innumerevoli pagine e noiosi interventi critici, una verità prosaica; banalmente esposta, se pensiamo che l’autore dell’opera ha, o avrebbe -se ne avesse avuto un motivo plausibile- riassunto il tutto in poche righe, poche scarne parole, pochi ma completi e fondamentali concetti. Ho quasi l’impressione, che nello scrivere un’introduzione ad una ipotetica opera, si venga immancabilmente rapiti da un desiderio occulto e alquanto deleterio di eguagliare intellettualmente l’artista a cui si ha dedicato tanto tempo, di cui si ha letto e straletto, di cui si invidia il grande talento letterario, che, a questo punto, si ama più di sé stessi.
Ma allora cos’è un’introduzione? Una mano severa e paterna che ci guida verso i meandri più nascosti dell’intero universo della conoscenza umana, o uno spazio dove l’autore della discussa opera non ha più accesso, non ha più voce -se non attraverso i cenni storici, la cronologia, le tendenze politiche, le dicerie rionali trapelate da chissà quale fonte- e dove non ha nessuna possibilità di ribattere e di smentire? Non c’e scampo: alla fine si tenta sempre di opporre all’arte la ragione. Di quale ragione si tratti, poi, resta ancora da stabilire, e non è questo il momento, la sede, l’intento; non sono neppure io la persona adatta... sono sempre stato troppo carente nello studio, nelle letture, nel lavoro, nell'impegno sociale e nel normale svolgere delle attività umane; ho sempre e solo studiato ciò che mi interessava, ho letto soltanto quello che mi interessava, ho lavorato il giusto necessario, mi sono impegnato verso gli altri limitandomi soltanto a non danneggiare mai nessuno, e per quanto riguarda l'attività normale umana sociale conseguita negli anni è stato solo un preponderare proteso verso un individualismo al limite di un' egocentricità e di un narcisismo sfacciato. In poche parole: mi sono fatto sempre gli affari miei.
Certo, si potrebbe benissimo avere la ponderatezza necessaria, quindi non il parziale giudizio per depredare quest’opera del suo effettivo senso reale, oppure si potrebbe tentare di instaurare un rapporto, seppure aleatorio, con le vere aspirazioni dell’autore, cioè, intendo, intrecciare un legame assoluto e indivisibile con l’effettiva costituzione di ciò che logicamente, convenzionalmente, dovrebbe seguire... ma... qui non segue assolutamente niente, una introduzione così non so proprio cosa dovrebbe precedere o a cosa dovrebbe introdurre, tutto è fine a se stesso, ed io, volevo in qualche modo dimostrare quanto a volte, dispersi nel più insano cinismo, possiamo essere egoisti senza rendercene conto.

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L'eterno divo

Mi guardo allo specchio e vedo un uomo schivo
quasi da buttare al secchio, non più l’eterno divo…
ne sono passati di anni tra odi di tormentati amori
ne porto ancora i danni e il tempo stinge i colori.

Poche le persone io ricordo lasciate per la stanca via
e un rimbombo tanto sordo segue come l’ombra mia
e quanto sognai lungo canneti che posero una impura tregua
alle chimere di brillanti roseti …la mente, poi il corpo s’adegua.

Di tanto in tanto colgo l’emozione di un momento
sfugge mentre me ne dolgo, forse è quel risentimento
per l’amore dissipato in mare, lasciato in balia delle maree
ma è forse peccato, amare? Restano cose e persone eteree.

Ed ero così vivo e schivo
ero come un eterno divo
che confidava il suo peccato al mondo.

Allora stanco presi la vita per le rime

tessevo la trama ardita
con telai di scenari diversi

poi misi l’arte nella vita
e un po' d’amore nei versi.

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Una misteriosa valigia

Non sembrò molto stupito, Marcello Prode, quando la grande scalinata di Via del Pensiero si presentò ai suoi occhi come qualcosa di insormontabile: qualcosa che appariva, in quella strana mattinata di marzo, simile a una salita interminabile in cui si dimenavano tra gli angoli retti i rigidi gradini di pietra. Era una sensazione che aveva già provato, una situazione ambigua che era riuscito a superare altre volte e che avrebbe superato ancora.
Prima di iniziare l’onerosa scalata era solito sedere suo primo gradino a guardare con quanta facilità gli altri passanti oltrepassavano l’ostacolo. Non si trattava di forza fisica né di buona volontà, era piuttosto un’ossessione latente che albergava nelle più normali manie quotidiane per poi esplodere non appena M. si trovava ai piedi della lunga scalinata: il respiro si faceva affannoso, la fronte gelava, il colletto della camicia stentava a trattenere quel collo sempre rigorosamente coperto da una sciarpa di lana; vedeva i pioppi beffeggiarlo dall’alto della piazzetta situata alla fine della scalinata.
Quel giorno M. mentre sedeva sul primo scalino, meditando su come la gente passava dalla strada alla piazzetta – per raggiungere il capolinea delle corriere dirette ai paesi limitrofi – attraverso la scalinata, si imbatté nella persona che avrebbe liberato nella sua mente il misterioso dilemma della valigia.
La folta barba bianca e il soprabito di chissà quanti anni fa, lasciavano intravedere una figura goffa e vacillante. Nella mano destra stringeva un ombrello che usava per sorreggersi nell’andare incostante, e nella sinistra il manico di una vistosa valigia di pelle marrone; ai piedi, delle scarpe di camoscio; un vecchio cappello stile fine ottocento copriva la chioma argentea; i rossi sulle guance contrastavano l’apparente età di ottant’anni. La grossa figura faceva fatica a trascinare quella valigia, tanto pareva che questa pesasse quintali.
M. lo guardò arrivare e il suo primo pensiero fu come avrebbe fatto a salire le scale portandosi dietro quell’enorme fardello, non era il solito passante, uno di quegli automi veloci e sicuri che vedeva spesso quando di tanto in tanto alzava gli occhi dal pavimento.
L’uomo che chiameremo signor T.E.M.P.O. – ossia: Temporaneamente Espresso Mediante Poema Ordinario – appena giunto alla scalinata posò a terra la valigia, estrasse dalla tasca interna della giacca un fazzoletto bianco, o per lo meno doveva esserlo quando era stato pulito per l’ultima volta, con cui asciugò le gocce di sudore tra le pieghe vissute della fronte.
«Giovanotto!» chiamò indicando con la punta dell’ombrello verso M. che era ancora seduto sullo scalino, «Giovanotto, sarebbe così cortese da aiutarmi a portare in cima la valigia?» chiese con tono educato ma deciso puntando in alto l’ombrello.
«Dice a me?» rispose M. ancora immerso nelle sue osservazioni.
«Sì, sì, dico a lei. Sarebbe così cortese? Di solito ce la faccio da solo ma oggi sono così stanco che se qualcuno non mi aiuta la lascio qui, la valigia intendo».
«Ma le pare, sarebbe un piacere rendermi utile ogni tanto» e M. si alzò ed ora quella sensazione di impotenza era svanita. Fece per prendere la valigia quando con un gesto veloce del braccio il signor T.E.M.P.O. lo fermò «E’ sicuro di farcela?» domandò, «Sì certamente,» rispose M. scrollando la testa «sarà una passeggiata!».
Presto si rese conto che non sarebbe salito nemmeno di un gradino con quella valigia, era più pesante di quanto potesse ancora immaginare. Provò a prenderla in braccio evitando la maniglia tagliente; provò a piegarla obliquamente per spingerla con la schiena; provò a far leva con un randello raccolto là vicino; tentò perfino di farsi aiutare da un suo contemporaneo, ma questi non appena provato ad alzare ebbe uno strappo alla schiena e se ne andò ricurvo maledicendo il giorno che era passato da quelle parti.
«Ah questi giovani d’oggi!» esclamò adirato il signor T.E.M.P.O. «Non hanno più voglia di fare il minimo sforzo. Ai miei tempi avrei fatto di tutto per aiutare qualcuno in difficoltà».
«Senta: perché non proviamo ad alleggerirla togliendo qualcosa? Magari potrei dividere il peso e fare due o tre viaggi» propose M..
«Impossibile!»
«Perché?»
«Quello che c’è dentro può essere descritto, quantificato, diviso, ma non trasportato al di fuori del suo contenitore»
M. accennò un sorriso, «Mi sta prendendo in giro?».
«Non mi permetterei mai egregio giovanotto, purtroppo è così. Le cose che ci porto dentro fanno parte della mia vita, ho provato a d abbandonarle, ma non è possibile, me le ritrovo sempre tra i piedi, tanto vale portarmele dietro in questa valigia, e poi non potrei fare altrimenti, nessuno può fare altrimenti …le ho già detto che non possono essere trasportate al di fuori de questo contenitore?»
Mostrando una lieve espressione di meraviglia, quasi un sarcastico stupore il signor T.E.M.P.O. che per ragione che non sto qui ad elencarvi chiameremo più semplicemente Tempo, terminò: «Mi dica: lei non possiede ancora una valigia?»
«No, perché, dovrei?» chiese M. mentre si stropicciava gli occhi con i palmi delle mani.
«E perché non dovrebbe?» ribatté tempo.
«Perché non ho nulla da portarci dentro, tranne, ovviamente, se devo partire per qualche posto»
Tempo si passò la mano più volte sulla barba incolta e irsuta, e con fare di chi gli è appena saltato in mente un pensiero di passaggio sussurrò osservando la sua valigia «…qualche posto, sì, devo essere stato in qualche posto. Dove si trova esattamente? Aspetta» poi si sedette accanto alla strana cosa. Si sedette anche M. incuriosito da ciò che Tempo avrebbe detto o fatto.
Tempo girò l’apertura verso di sé in modo che l’altro non potesse vederne il contenuto. L’ aperse e dopo averci frugato a lungo non ne trasse nulla , così fu la prima impressione di M. quando il sempre più losco signore gli si rivolse dicendo: «Ecco qui!».
«Cosa?»
«Non vedi?» incalzò Tempo.
«No, non vedo niente» ribatté M..
«Non vedi nemmeno il lago ghiacciato dove bambino andavo a pattinare e la vecchia scuola del paese dove studiò anche mio padre? Non vedi la via principale che conduce alla grande piazza dove andavo a giocare con i miei amici e dove per la prima volta baciai una ragazza? Sai, Molto tempo dopo diventò mia moglie»
M. non vedeva alcunché di quello che gli veniva mostrato, ma presto si rese conto del contrario mentre Tempo tirava fuori apparentemente dalla valigia di tanto in tanto nuove cose. Ora poteva vedere, o meglio, sentire attraverso le minuziose descrizione di quell’uomo: la calda atmosfera domestica della sua casa natale; il lungo viaggio per l’Europa alla ricerca di chissà cosa; i dolci lineamenti della sua sposa, che pareva fosse morta in seguito ad una malattia; gli anni in cui passò tutte le sere al Café de Paris a bere e a fumare; le esperienze artistiche vissute sotto l’effetto dell’hashish; le esperienze sentimentali ed erotiche con le prostitute tedesche; mille altre cose ancora…
M. distolse gli occhi dal vuoto riportando la sua attenzione sulla misteriosa valigia di pelle marrone. Cosa poteva contenere? Era così pesante. Pensò che fosse piena di libri, piena zeppa di album fotografici, che contenesse uno di quei superati computer con tanto di batteria gigantesca; pensò pure a degli oggetti incorporei simili al gas, che non appena usciti dalla valigia si dissolvevano per poi ricomporsi immediatamente nelle parole nostalgiche di Tempo.
«Potrei guardare nella sua valigia?» chiese timidamente M. «soltanto una sbirciatina…».
«Giammai!» affermo Tempo, «il suo contenuto è strettamente personale».
«Mi dica almeno di cosa si tratta» insisté M.
«Giovanotto, si è fatto tardi, devo andare» terminò bruscamente Tempo.
Lo strano signore si alzò, prese la valigia e si avviò sui gradini ascendenti della scalinata. M. lo salutò con un gesto della mano. Adesso sembrava che la valigia non pesasse più di qualche chilo, dato che Tempo la portava quasi con disinvoltura mentre saliva. Come era possibile che una cosa così pesante che M.: non riuscì a spostare di un centimetro, di colpo, fosse diventata un bagaglio più o meno normale?
Non passò molto tempo che M. decise di intraprendere la solita scalata. Salì facilmente, come facevano gli altri, senza voltarsi indietro a guardare lo spazio percorso, senza nemmeno essere impressionato dalla prospettiva del paesaggio sottostante che ad ogni gradino superato mutava sensibilmente.
Raggiunta la sommità, si condusse alle panchine disposte in cerchio nella parte centrale della piazza, sotto gli alti aceri, intorno alla fontana, dove per la seconda volta incontrò Tempo. Era seduto sulla panchina intento a rovistare nella sua valigia tenuta sulle gambe, e appena scorse M. arrivare la richiuse di scatto.
«Bene, ci rivediamo ancora» fece Tempo trasparendo dal viso una ironica espressione.
M. lo fissò intensamente mentre si sedeva accanto a lui, «Ci sono ancora le cose nella sua valigia? Ho visto che l’ha portata senza nessuno sforzo».
«C’è ancora tutto»
«E come mai adesso è così leggera?»
«Perché ho imparato a sopportarne il peso»
«Il peso di cosa?»
«Il peso delle cose che ci porto dentro» rispose accennando un sorriso. «lei è così giovane, non può capire » Detto questo, invitò l’altro che era ancora in piedi a sedersi accanto a lui.
«Caro giovanotto, sono sicuro che presto anche lei avrà una valigia, e come me, potrà spostarla solo con le sue mani. Ma mi tolga una curiosità: come è possibile che non ha ancora una valigia? »
«Mah, io…» mormorò M. guardandosi intorno «io non penso di averne bisogno».
«Mi scusi l’impertinenza: ma dove tiene le sue cose? »
«Quali cose intende, precisamente? »
«Le cose… ha mai letto Proust» chiese Tempo.
«No, non direi, anche se non può certo passare inosservato il suo esagerato, ma così affascinante, attaccamento al passato; le notti chiuso nella sua stanza che aveva provato in tutti i modi di isolare dal mondo; le innumerevoli pagine manoscritte che occupavano la scrivania, quelle pagine che nella Parigi del nuovo secolo contrastavano le futili mondanità di fine ottocento; l’asma che lo costrinse alla reclusione fin dalla prima infanzia e che allo stesso tempo acutizzava sempre più il suo spirito di osservazione e l’eccezionale talento letterario. No, non l’ho mai letto» terminò M. rotolandosi la sciarpa di lana più volte intorno al collo.
«Lo immaginavo, è un vero peccato, mi creda» disse Tempo accarezzando le scintillanti chiusure metalliche della valigia, «se lo avesse letto ora avrebbe anche lei una valigia come la mia».
«Non saprei che farmene! » gridò M..
«Non ci credo» incalzò Tempo.
«Guardi, ho tutto nelle tasche: il telefono, il portafogli, le carte di credito, le chiavi, il manuale del giovane arrivista, “La nausea” di Sartre, un orologio, l’accendino, l’aerosol portatile, una cicca, incarti di cioccolatini, gomme da masticare riciclate, integratori alimentari contro l’invecchiamento, antiemetici, antibiotici, antiparassitari, e…»
«E le altre cose? » domandò annoiato Tempo.
«Non so…» rispose M. volgendo lo sguardo verso i bambini che erano appena arrivati a giocare nella piazza.
I due rimasero per molto tempo in silenzio, seduti sulla panchina. M. ipotizzava attraverso inutili e fantastiche congetture cosa mai potesse contenere la misteriosa valigia del signor Tempo, e questi, dal canto suo, era restio dal rivelarne le natura.
«Sapesse quanto mi piacerebbe averne una» sospirò M. rompendo il silenzio, «vede signore, ho cercato di dimenticare tutto, tutto ciò che mi è accaduto e in un certo senso lei ha contribuito a rendermene conto: se avessi una valigia come la sua, potrei conservarci tutto il tempo che imparerei a ritrovare; proprio come lei, perché è questo l’insieme di cose che custodisce tanto gelosamente nella valigia, non è vero? ».
Tempo non rispose, salutò M. con una poderosa stretta di mano, si alzò, prese il bagaglio e si avviò per la sua strada. Dopo pochi passi si rivolse per l’ultima volta a M. che era rimasto seduto sulla panchina ad osservare il movimento continuo dell’acqua sull’immobile struttura della fontana «Non dimentichi di prendere la sua valigia, mi raccomando! » gridò con tono severo.
«Quale valigia? » chiese M..
«Quella accanto a lei…» rispose Tempo riprendendo la via.
M. si voltò di scatto: vicino a lui c’era una bellissima valigia di velluto rosso. Subito se la sistemò per bene sulle gambe tremolanti per l’emozione e trovato il coraggio necessario la aprì lentamente.
«Quante cose! » esclamò tra sé e sé. «Questo è il mio vecchio trenino elettrico, compagno di tante giornate; qui le scarpe quasi inutilizzabili che per anni mi ostinai a portare; qui le cose più brutte, per ora non voglio guardarle; qui le lente, lunghe ore passate in solitudine a domandarmi perché mai il tempo che passava era così atroce; qui le pareti della mia stanza illuminate dalle prime luci del mattino; qui la mia famiglia; qui i posti che hanno incorniciato la mia esistenza, le mie impressioni, le poesie, gli amori sofferti e perduti, i libri letti, e tutte le cose passate, perse ed ora ritrovate e comprese».
M. passò gran parte della propria vita seduto su quella panchina a frugare nella valigia di velluto rosso e adesso la scalinata che da Via del Pensiero conduceva alla piazza sovrastante, dove era solito sostare, non era più un problema.
Trovò tutto, in quella che ora era per gli altri soltanto un bagaglio pesante. Trovò perfino, nascosto in un angolo della valigia, il regalo che suo padre gli lasciò per il dodicesimo compleanno, proprio prima di morire: un regalo meraviglioso… se allora avesse potuto capirlo.

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Abbey Road - 18 nov 2007 (di U. Mantaut)

Il muretto e le colonne dei cancelli della famosa casa discografica sono zeppi di firme di fans o di turisti curiosi, qualcuno ha lasciato rozzi murales e frasi di natura politica che nulla hanno a che fare con la musica. Le strisce pedonali sono ancora là dove finisce la Abbey Road, confluendo nella Grove End Road per lasciare il tranquillo quartiere residenziale di Maida Vale in direzione di Marylebone e il centro.
Della curiosa copertina di uno dei più famosi long-playing dei Beatles mancano troppe cose. Gli idoli della nostra gioventù sono scomparsi da tempo come complesso e qualcuno fisicamente, ma sembra ancora di rivederli attraversare in fila indiana la quieta strada londinese. Non c’è traccia del maggiolino bianco targato LMW281F al quale sono stati attribuiti significati allegorici. Gli alberi sono stati sfrondati e in autunno sono spogli, lasciando vedere le facciate di mattoni rossi delle residenze borghesi.
Eppure, qui si viene come in pellegrinaggio per ricordare anni e canzoni indimenticabili.
Ad Abbey Road arrivano ammiratori maturi e nostalgici, ma stranamente anche tanti giovani. Tutti s’impegnano ad attraversare sulle mitiche strisce, in segno d’omaggio e per l’immancabile fotografia. Cade a tratti la pioggerella londinese, l’asfalto è bagnato, le strisce avrebbero bisogno di una mano di vernice. Nessuno s’azzarda ad imitare Paul Mc Cartney, il più bello e fortunato dei quattro, che attraversava scalzo, senza cravatta e con la sigaretta fra le dita della sinistra.

Gli automobilisti educati e pazienti si fermano per lasciar passare i pedoni, non si meravigliano per quel continuo andare e tornare che alcuni fanno per ripetere le foto in pose diverse. In lontananza spicca un tipico bus rosso a due piani diretto in centro. La pioggia aumenta d’intensità, bisogna salire a bordo e lasciare alle spalle Abbey Road e le nostalgie degli anni ‘60, ed è nuovamente “Yesterday”.
Questa volta il volo a Londra da Roma, euro 62 andata e ritorno con Ryanair, non ha avuto una ragione precisa. Solamente rivedere amici e luoghi cari, bighellonare fra la folla di Covent Garden e Leicester Square, ammirare le luminare prenatalizie della Oxford Street, ritrovare le atmosfere umide dei ponti e del Victoria Embankment sorvegliato dal moderno London Eye, una specie d’immensa ruota del Prater realizzata con dubbio gusto presso la London County Hall, proprio sulla sponda del Tamigi opposta a Westminster.
Come tante nostre città, Londra peggiora in un certo senso. Sempre più congestionata, nonostante i divieti e le dissuasioni, troppo affollata da stranieri, piena di fast-food che la riempiono di odori orientali ed arabi, forse più pericolosa. Anche chi è avvezzo
a districarsi nel caos del “tube” non può fare a meno di pensare, quando sta pigiato nelle vetture della metropolitana, a cosa potrebbe nuovamente accadere in caso d’attentato su quei treni affollati, lanciati nel buio d’interminabili gallerie strette e puzzolenti. Insomma, non si vive più tranquilli in quella che era la metropoli più ordinata e signorile del vecchio mondo.
I veri londinesi vivono quasi tutti fuori Londra. Si torna a St. Albans. La romana Verulamium rivive nel modernissimo, piccolo museo realizzato per ospitare i reperti della regione che si è rivelata un autentico giacimento archeologico di prima grandezza. La visita sorprende per la cura che è stata profusa nel realizzare l’eccezionale esposizione di grande interesse turistico e didattico. Fuori piove, ma nelle calde navate della meravigliosa Cattedrale si svolgono le prove di un concerto di Natale. Per finire, tutti al pub per una bella cena con ottime birre. A gentile richiesta una vecchia canzone di Burt Bacharach, “I’ll never fall in love again”.

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