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>> lunedì 5 gennaio 2009

Ancora un attimo, sto pensando...

potrei elencarvi tutti i particolari più suggestivi che hanno contribuito a rendere la mia vita un turbine di emozioni mozzafiato, potrei iniziare a parlare di quando avevo cinque anni e mi sono tirato adosso tutti i fornelli con tanto di pietanze in cottura (volevo vedere che c'era in cottura) e ne sono uscito illeso per miracolo; per poi poseguire con: quando a sei anni sono caduto da un albero sulla macchina della maestra (poi colta da malore per lo spavento) e non lo feci affatto apposta...; per poi continuare con quando alla soglia dei sette anni... ma sarò più breve: 10 minuti fa non sapevo nemmeno su cosa meditare e allora cliccando selvaggiamente tra le directory del pc ho trovato questa foto ritoccata, o meglio, stravolta dagli innumerevoli strumenti grafici di cui oggi possiamo facilmente avere disposizione, stravolta? sì ma allo stesso tempo mantiene sempre lo stesso soggetto, nulla di speciale: due amici seduti su un divano dopo cena.
Ecco, lascio a voi la meditazione del mese (che a questo punto diventa anche foto del mese). Bene, guardatela e dite (o pensate) quello che l'atmosfera un pò "pop art" vi suggerisce. A me piace molto il contrasto dei colori, forse è una delle migliori che ho creato, ma non posso essere obiettivo poiché io ne sono l'autore e inoltre il soggetto o i soggetti, sono due miei amici.

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Giorni

Non sono ancora venuti
i giorni che allora aspettai
quando sulla verde collina
correvo solo e spensierato.

La vecchia quercia
mi aspettava lì in cima
ergendosi ancora fiera
verso la scura notte

e mi promise giorni
ore e minuti d’una vita
che avrei trascorso
dopo l’opaca sera.

Mia fu quella notte immatura
che si estendeva oltre i confini

e mio fu il nuovo mattino
giunto così all’improvviso

mentre contavo sulle dita le stelle.

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Un nuovo anno

Il capodanno del duemilauno fu veramente qualcosa di strano. Non perché quella notte mi sentissi particolarmente solo e dimenticato, ma piuttosto per il fatto di aver voluto, in piena coscienza, trascorrere la notte di San Silvestro solo e sconsolato; del resto, le prospettive per una serata tranquilla, se avessi scelto di festeggiare con gli amici, erano nulle o quasi, tutto si sarebbe risolto come di solito: deliri alcolici, innumerevoli brindisi alla salute e "alla faccia de chi ce vò male", traumi fisici e psichici, e soprattutto, quella irrepremibile sensazione di angoscia che ci coglie proprio all’ultimo secondo del countdown, mentre tutti gli altri sono pronti ad esultare e noi, magari sprofondati su un comodo divano guardando la scena da lontano non desidereremmo altro che il silenzio; ma poi sorridiamo, esultiamo e gioiamo ugualmente con loro.
Quella sera volli evitare tutto questo, mi convinsi -seppure a forza- che sarebbe stato meglio tenermi da parte, e, pur volgendo un caro augurio di buon anno dal fondo della mia anima protesa in quel momento verso tutti, mi rintanai in casa, barricai la porta e inchiodai le finestre; come avrebbe fatto un evaso che dopo tanta attesa e bramosia di libertà, recluso in una cella a cielo aperto in cui non rappresentava altro che la propria insensata esistenza, sarebbe poi stato costretto ad evitare qualsiasi contatto con il mondo esterno, e di conseguenza essere lo stesso recluso.
Erano più o meno le undici e trenta quando seduto di fronte al computer quasi ipnotizzato dai milioni e milioni di bit -che poi, nessuno può veramente convincermi della loro reale esistenza- fui risvegliato dal suono acuto del mio cellulare. Erano alcuni dei miei amici, che quasi stupiti dalla mia incomprensibile assenza, mi invitavano a raggiungerli ad una festa presso casa di altri amici: «a Sa, aho!, n‘do stai, ma che cavolo fai?, nun fa er matto che rimani a casa da solo!» Ringraziai per l’invito, e risposi, modificando in modo rauco il tono della voce, che stavo poco bene; li salutai.
Non nascondo che nel chiudere lentamente lo sportellino del telefono, mi sentii sollevato ma allo stesso tempo perso, solo e indifeso, vittima e carnefice di quella sconosciuta evanescente entità che spesso ho idealizzato, eretto a modello di vita: quel me stesso schiavo e padrone delle più profonde passioni, che si scalda quando legge Neruda, che confessa a sé soltanto l’amore vero, che riluce di superbia se viene offeso, che odia essere troppo fuori o troppo al centro dell’attenzione altrui, che non sopporta frasi fatte e buttate lì con toni di sentenza. Ma il noto proverbio in questo caso trova la sua più pragmatica e peculiare essenza:
Chi è causa del suo mal, pianga se stesso.
Come già detto non sopporto i proverbi, sfortunatamente sono sempre stato attratto e influenzato da frasi del tipo:
I piaceri semplici sono l’ ultimo rifugio delle persone complicate.
Certo, mi rendo conto che queste frasi possano essere del tutto discutibili, tuttavia, come scrive lo stesso Wilde: nell’arte non si aspira mai al bene o al male, ma soltanto a creare qualcosa che abbia una certa bellezza. Quindi, ogni cosa che creiamo non mette in bella mostra altro che il nostro splendore o il nostro decadimento, spesso, nelle più alte espressioni, l’insieme delle due coagisce con il naturale e incosciente conflitto interiore dell’autore. Sì, il conflitto interiore dell’autore, forse l’unico e vero elemento che si trova alla base dell’arte e che tenta di rivelarne un significato tanto caduco nell’animo quanto straziante e immortale nella materia che con il genio si ha plasmato. Ma l’arte forse, in realtà, è solo un’illusione, poco ci appartiene, se pensiamo per un momento: «non starò esagerando un pochino?» Torniamo alla sera del trentuno dicembre.
Era quasi mezzanotte e c'era chi imperversava come non mai sulle reti nazionali, lo stereo riproduceva fedelmente le dolci e graffianti strofe di "Nella mia ora di libertà" di De André, fuori stava per scatenarsi il finimondo, ed io, più che mai adagiato sulla mia solitudine, sorseggiavo lentamente del buon brandy nostrano compera-to appunto per l’occasione.
Pensavo e ripensavo alla mia vita, alla mia presunta arte, alle glorie, alle amarezze, e sorseggiavo quel brandy, sorseggiavo, sorseggiavo, «non starò esagerando?…..Hic!».
Smisi di sorseggiare, non volevo certo ubriacarmi, perdermi nei vapori invisibili e inebrianti dell’alcool, lasciare la coscienza dell’io per l’imposizione dell’istinto e magari continuare a scrivere assurdità come queste. Anzi a un certo punto, proprio agli ultimi secondi, al finire del vecchio anno, decisi di usare la terza persona.
S. distrasse lo sguardo dal computer, era stanco di scrivere e di leggere e rileggere quello che aveva appena scritto, sentiva una lieve speranza pervadergli il cuore: forse il nuovo anno sarebbe stato migliore. Forse era soltanto un inutile inganno dei sensi, ma quella sera l’aria era leggera e delicata, tanto pareva di trovarsi in montagna e non in quella località marina dove S. viveva già da tempo; se ne accorse presto, quando schiodò le finestre e spalancò la porta, respirando a pieni polmoni l’odore incognito che il nuovo anno avrebbe per lui riservato.

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Puglia - La punta del tacco (di U. Mantaut)

Sul far della sera le strade del centro si animano e i leccesi confluiscono nella bella piazza di Sant’Oronzo, salotto buono della città, con il grande anfiteatro romano e il Palazzo del Seggio, detto il Sedile, costruito nel 1592 quand’era sindaco Pietro Mocenigo.
E’ l’ora dello “struscio”. La folla è composta in gran parte da giovani, gente bella, frutto di un millenario miscuglio multietnico. Nel Salento e più in generale in tutta la Puglia hanno vissuto, sono transitati e si sono insediati, spesso prepotentemente, quasi tutti i popoli del bacino mediterraneo e molti intrusi venuti da terre settentrionali, integratisi poi perfettamente nella parte più sudorientale dell’italica penisola.
I greci vi trovarono gli antichi abitatori japigi, messapi e salentini. Vi fecero incursioni i sanniti e i lucani. Roma lottò a lungo in queste contrade contro l’odiata Cartagine. Poi vennero goti, eruli, longobardi, saraceni e bizantini. Dall’est si affacciarono ungari e slavi, ma la fioritura culturale venne con i normanni, gli svevi e gli angioini, e successivamente con aragonesi e castigliani. Buoni ultimi i Borboni che, per la verità, consegnarono all’Italia dei Savoia una regione retrocessa a povera provincia agricola, con le potenzialità per ritornare ai giorni nostri ricca, prospera e civile.
Nei tratti somatici i salentini rivelano origini elleniche e levantine, arabe e balcaniche, mitteleuropee ed iberiche. Quasi mai corrispondono all’immagine stereotipata dell’italiano del sud. A Lecce s’incontrano bellezze brune con gli occhi verdi, bionde dalla carnagione olivastra, rosse lentigginose e more magrebine. La provincia ha un suo dialetto, ma quando questa gente parla in italiano non s’odono accenti fastidiosi, come se l’intera cittadinanza avesse frequentato corsi di dizione.
Lecce è una città colta, l’Atene delle Puglie.
E’ una città d’arte, la Firenze del sud. Tuttavia, quasi nessuno ha pensato di paragonarla ad un’altra città fantastica, Lecce è la Quito d’Europa. La lontanissima capitale dell’Ecuador non ha molto da spartire con Lecce per quanto concerne la posizione geografica. Lecce è un grosso centro che si è esteso in una ricca piana agricola fra due bracci di mare, Quito è arroccata sulle Ande impervie, a 3000 metri, circondata da giganteschi vulcani. E’ il centro storico delle due incredibili città che presenta stranissime somiglianze. Purtroppo, almeno per ora, solo Quito è protetta e dichiarata patrimonio dell’umanità, per le sue bellezze e l’eccezionale concentrazione di monumenti barocchi. Di Lecce e del Salento si parla poco, persino in Italia. Anche in questo modo si perpetua l’ingiustizia di considerare il nostro meridione come area depressa, priva di vere attrattive e, quindi, tagliata fuori degli interessi economici e dagli itinerari turistici.
Lecce, quasi pudicamente, ha avvolto il suo stupendo centro storico in una fascia di viali e giardini alberati, che separano la città antica dagli insignificanti quartieri moderni. Quando si perlustra il dedalo delle vie centrali dove si allineano splendidi palazzi o ci si addentra nelle piazze dominate dalle facciate barocche delle innumerevoli chiese si rimane a bocca aperta.
Sarebbe lungo enumerare tutti i capolavori dell’arte leccese. Basti citare Santa Croce e il Duomo, il Palazzo del Governo, quello vescovile e il Seminario, il Campanile, la Chiesa del Gesù, quella del Carmine, Sant’Angelo, i SS. Niccolò e Cataldo, Santa Chiara e San Matteo, senza contare le numerose residenze nobiliari dell’aristocratica città.
La pietra leccese è un calcare tenero che si lavora con scalpelli, pialle e accette, ma che all’aria indurisce ed assume il colore dell’oro fino.Così i grandi manufatti architettonici hanno piuttosto l’aspetto d'elaborate sculture, opere cesellate con raffinatezze d’alta oreficeria. Le facciate leccesi sono una profusione di colonne tortili, frontoni curvilinei, balaustre traforate, festoni di fiori e frutti di pietra, rosoni, sfilate di angeli, putti, maschere e cariatidi, balconi scolpiti, portali e finestre dalle ricchissime cornici piene di fregi, nastri e stemmi. Lo stile non è stato abbandonato negli interni, anzi, passando dalla luce accecante del mezzodì ionico all’ombra amica delle navate basilicali e dei saloni dei palazzi, il barocco si avvale di materiali ancor più duttili della pietra leccese. I marmi policromi e il legno, ricoperto con lamine d’oro zecchino, captano la fioca luce dei luoghi di culto e delle dimore patrizie e la rifrangono con effetti sorprendenti.. Gli altari sfavillano come scrigni traboccanti di pietre preziose, la cornici rischiarano i quadri come riflettori puntati da sapienti tecnici dell’illuminazione, santi e madonne sorridono indulgenti ai fedeli abbagliati dai loro paramenti sontuosi, degni di sovrani potenti, incommensurabilmente ricchi. In alcuni casi l’effetto è ipnotico e non si vorrebbe più andar via.
Da Lecce si dipartono come i raggi di una stella perfetta numerose strade rettilinee. Raggiungono le più belle località del Salento che si adagiano pigramente nella piana assolata o si allineano sulla costa luminosa dei due bracci dello Ionio, giù fino all’estremità del tacco dello stivale dove Santa Maria di Leuca spinge il suo sguardo verso il favoloso oriente. Ecco San Cataldo, con le sue spiagge, Otranto alla foce dell’Idro, Gallipoli protesa nel mare, e all’interno le bellissime cittadine di Nardò, Galatina, Maglie, Casarano, Copertino e Tricase. Ancora palazzi, castelli, cattedrali e mura. Città bianche con i forti chiaroscuri delle medine arabe, solo che nel Salento non ci sono minareti e le aree agricole non sono desertiche, bensì ricche di magnifici uliveti secolari, vigne generose, verdi agrumeti ed orti fertilissimi. Al paesaggio quasi monotono delle zone pianeggianti si contrappone la sorprendente bellezza delle coste frastagliate e rivestite della macchia odorosa, dove occhieggiano ruderi di antiche torri d’avvistamento, trulli, fattorie e ville.
Quando si giunge al Santuario di Santa Maria di Leuca, il Salento si protende nel mare nel punto in cui l’Italia riceve all’alba il primo raggio di sole. Siamo sullo Iapygium promontorium, detto anche promontorium Sallentinum o de Finibus Terrae, il tallone della penisola italica, 39° 47’ 41 “ latitudine N e 18° 22’ 13” longitudine E di Greenwich.
Secondo la leggenda o, se si vuole la superstizione, il pellegrinaggio in questo sito è un passaporto per il paradiso. Chi non ci viene da vivo dovrà qui recarsi dopo la morte.

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